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Il prof. Giuseppe Colitti e un archivio storico che racconta il dialetto del nostro Paese


30-10-2011

 

Il prof. Giuseppe Colitti è da sempre profondo conoscitore del dialetto, che cosa significa studiare apprendere e conservare questa importante risorsa locale?
 
Significa conservare la memoria di un mondo che ormai non c’è più perché dagli anni ’50 in poi, ci sono stati dei cambiamenti epocali che sono sotto gli occhi di tutti. E poiché il dialetto è un fenomeno dinamico e in continua evoluzione risente di questi cambiamenti per cui molte parole che esistevano mezzo secolo fa non ci sono più, sono scomparse dall’uso quotidiano perché un po’ la televisione un po’ l’istruzione obbligatoria hanno trasformato la realtà quotidiana. Quindi il dialetto essendo un aspetto molto aderente a questa realtà ne ha risentito moltissimo, per fare un esempio, parole come pizzicandrongula a Sala significava altalena, non c’è più perché non vi è più questa abitudine di andare sull’altalena da parte delle bimbe, così come sono scomparsi alcuni giochi da parte dei maschietti. Conservare la memoria significa rendersi conto anche di questi cambiamenti.
 
Anche nelle nostre zone assistiamo a un tramandarsi continuo di molti termini dal latino al greco fino ai giorni nostri.
 
Dobbiamo ragionare sempre andando indietro, se queste parole non sono più in uso vuol dire che non sono più praticate e ormai sono diventate una semplice memoria. Per esempio la parola prieju non si usa più, significava il massimo della gioia, cecaceca per dire cicala o caticataschia per dire lucciola, sono vocaboli che non si usano più anche per il motivo che le lucciole non si vedono più come prima e anche perchè rispetto a prima il rapporto con la campagna è diventato molto labile.   
 
Tra gli ultimi autori contemporanei che si sono serviti del dialetto conservandolo quasi gelosamente possiamo annoverare il calabrese Giuseppe Occhiato, sul quale recentemente il prof. Giordano di Padula ha scritto un libro alla cui presentazione era presente anche lei.
 
Sì Occhiato utilizza le parole del dialetto perché le ritiene più corpose per esprimere la realtà, per esempio per esprimere un bombardamento, un momento centrale del suo racconto del 1943, utilizza la parola scascio, parolache ha una intensità espressiva che non si riscontra nelle parole attuali. Egli recupera questi termini per esprimere una quotidianità contrassegnata da un sistema simbolico custodito per secoli in un dialetto che esprime in maniera insostituibile credenze religiose e magiche e costumi ormai desueti. Molti vocaboli sono di origine onomatopeica e ciò spiega il rapporto diretto tra linguaggio e realtà.
 
Che cosa fare allora per proteggere questo dialetto presso ciascuna comunità? 
 
Già negli anni ’70 ho percepito i cambiamenti che stavano avvenendo e ho cercato di conservare il più possibile le registrazioni dei vari dialetti del Vallo di Diano e Cilento perché in questo modo non si perdeva il filo della memoria attraverso il tempo. Questo filo, come si vede oggi, è stato interrotto eppure una volta accanto al fuoco le persone anziane raccontavano le storie di vita o le fiabe tramandate di generazione in generazione da tempi immemorabili. Un modello di narrativa popolare di respiro mediterraneo che adesso non avviene più e quello a cui stiamo assistendo è frutto dei cambiamenti negli ultimi decenni, caratterizzato dal progresso civile ma anche dal consumismo e dai tanti rifiuti. Occorre proteggere il proprio dialetto perché è la nostra memoria.
 
Antonella Citro
    
 
 
 



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